Anche l’espressione artistica nel corso dei secoli ha testimoniato visivamente i fatti del 1263 e l’importanza che ebbe il prodigio nella storia della chiesa e nella vita delle comunità di Orvieto e Bolsena:
– gli smalti che decorano gli sportelli del reliquiario di Ugolino da Vieri con gli episodi salienti della narrazione del miracolo;
– il ciclo di affreschi, del XIV secolo, di simile soggetto, opera di Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale;
– il celebre affresco commissionato da Giulio II a Raffaello nel 1512 per la Stanza di Eliodoro nei palazzi vaticani;
– gli affreschi che ornavano la facciata della Grotta di Santa Cristina descritti nel 1435 da Leonardo Mattei da Udine;
– il plastico maiolicato di Benedetto Buglioni raffigurante la Crocifissione e il Prodigio (1496);
– la settecentesca tela, pala dell’altare maggiore della Cappella Nuova del Miracolo, opera di Francesco Trevisani.

Reliquiario di Ugolino da Vieri

Le reliquie del Miracolo riposte nel sacrario della cattedrale da Urbano IV, già sul finire del sec. XIII, erano venerate in un proprio oratorium appositamente costruito all’interno dell’area dell’erigenda cattedrale. Nel 1351-1367 fu costruita accanto al primitivo oratorium la cappella del Corporale, le cui pareti furono com￾pletamente affrescate da Ugolino di Prete Ilario con episodi del Miracolo di Bolsena e altri inerenti l’Eucaristia. In questo tempo però il corporale e l’ostia avevano già la loro splendida custodia: il reliquiario di Ugolino da Vieri, altissimo capolavoro dell’oreficeria italiana del secolo XIV. Era stato commissionato nel 1335-36 al famoso orafo senese e ai suoi collaboratori dal vescovo Tramo di Corrado Monaldeschi della Cervara e dai canonici della cattedrale di Orvieto, come attesta l’iscrizione in caratteri trecenteschi alla sommità del basamento: HIC (sic) OPUS FECIT FIERI FECIT DOMINUS FRATER TRAMUS EPISCOPUS URBEVETANUS ET DOM ANGELUS ARCHIPRESBYTERI (sic) ET DOM LIGUS CAPPELLANUS DOMINI PAPE ET NICOLAUS DE ALATRO. Segue nel lato sinistro: ET DOM FREDUS ET DOM NINUS ET D. Segue nella parte posteriore: LEONARDUS CANONICI URBEVETANI + PER MAGISTRUM UGOLINUM ET SOCIOS ARTIFICES DE SENIS FACTUM FUIT SUB ANNO DOMINI MCCCXXXVII TEMPORE DOMINI. Segue nell’altro lato: BENEDICTI PAPAE XII.

Affreschi di Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale

Il ciclo pittorico della cappella è una esaltazione dell’Eucaristia attraverso conoscenze bibliche, allegoriche e prodigi legati ad eresie e profanazioni delle specie eucaristiche. Sulla parete destra, accanto al tabernacolo marmoreo che custodisce le reliquie del prodigio, sono affrescate le suddette storie del Miracolo di Bolsena, la cui traccia iconografica evidentemente si riallaccia agli smalti del reliquiario del corporale, salvo modeste ma interessanti variazioni. Gli affreschi, come oggi ci appaiono, sono deturpati da un restauro eseguito dai pittori Lais e Bianchini per ordine e a spese di papa Pio IX nel 1857. Fortunatamente i lavori vennero interrotti nel 1860. Il restauro mirò più che ad una conservazione degli
affreschi ad una loro completa ridipintura; ma stando alle descrizioni di Antonio Carrarino (1622) e di Andrea Pennazzi (1731) sembra che il disegno dei vari episodi della narrazione sia stato rispettato. Il testo delle didascalie che accompagnano ogni singolo episodio, come è giunto a noi, è il seguente:
1° SACERDOS IN ECCLESIA S. CHRISTINAE IN CORPORALI VIDET MIRACULUM


2° SACERDOS VENIENS AD URBEM VETEREM DIX. MIRACULUM PP. URBANO
3° PAPA PRAECEPIT EPISCOPO QUOD DEFERRET AD URBEM VETEREM H.M. CUM COR￾PORALI
4° EPU IN ECCLESIA S. CHRISTINAE HM. ET CORPORALE REVERENTER ACCEPIT
5° AD AMNE PERVENIT EPUS HOSTIAM CUM CORPORALI FERENS URBE VETERE. PAPA
VENIT OBVIAM SIBI USQUE AD PONTEM RIVI CLARI


6° QUOMODO URBANU QUARTU OSTENDIT POPULO MIRACULUM UNIVERSIS ORDINI￾BUS INUSITATA LAETITIA ET ADMIRATIONE PER URBEM GESTIENTIBUS


7° PAPA PRECEPIT STO TOME AQUINATI QD COMPONERET PRECES SOLEMNIB DNI CORPORIS TOTO ORBE CELEBRANDIS.


Affreschi a Bolsena

Simili soggetti dovevano trovarsi affrescati in Bolsena sulla facciata dell’ipogeo di Santa Cristina. Così li descrive, nel 1435, Leonardo Mattei da Udine:

Stupente curia; per summum pontificem deliberatum est, quod festum corporis christi per universam ecclesiam celebraretur, imposuitque S. Thoma de Aquino ordinis predicatorum, ut officium Corporis Christi conficeret secundum usum omnium ecclesiarum, Volsinii depictum est miraculum sacerdotis celebrantis; depictus quoque S. Thomae sedens in cathedra circumstante curia hujus sacramenti officium dictans. Ultimo depictus est crucifixus alloquens sanctum Thomam, et dicens: bene scripsisti de me Thoma…

Si tratta di quegli affreschi che nel 1573 monsignor Alfonso Binarino fece riprodurre su tre tavole di pietra nera dal pittore Cesare Nebbia, le quali, nel 1696, erano ancora custodite nella sacrestia della basilica, come testimonia il frate Giacinto Ravvicini. Di questi dipinti si è persa ogni traccia.

Sull’arco, che dal vano-nartece immette nella basilichetta ipogea di santa Cristina, è un grande affresco, riportato alla luce nel 1963, databile alla seconda metà del XIII secolo o agli inizi del XIV. L’interpretazione iconografica è enigmatica e controversa. All’estrema sinistra è la figura di un pontefice privo di aureola,
con la sinistra protesa verso un Cristo Pantocrate inserito in un nimbo circolare sorretto da due bellissime figure di angeli. Segue l’immagine di una santa riccamente vestita di dalmatica, velo e corona, di tradizione bizantineggiante, che sostiene un lino bianco e un vaso o calice. Dopo una frammentaria architettura è la scena dell’Ultima Cena. L’interpretazione al momento della scoperta fu la seguente: il pontefice all’estrema sinistra venne identificato con Urbano IV che tiene nella destra un rotolo con il testo della Transiturus e che presenta a Cristo la martire locale santa Cristina con in mano le reliquie più importanti del prodigio, il calice e il corporale.

L’interpretazione più logica e sem￾plice è quella di vedervi papa Gregorio VII che presenta a Cristo la martire Cristina, la quale porge i simboli arcaici del vaso con il sangue versato nel martirio e il lino candido della verginità. Gregorio VII, in quanto, secondo una tradizione locale antichissima e fortemente radicata, fu lui che il 10 maggio 1078 autenticò le reliquie di santa Cristina e ne consacrò la nuova chiesa.

La Crocifissione e il Prodigio – Benedetto Buglioni (1496)

Documento iconografico sicuro del Miracolo di Bolsena è invece, seppur di epoca più tarda, la splendida pala in ceramica invetriata policroma dell’altare del prodigio. Quest’opera, realizzata insieme ad altre sculture da Benedetto Buglioni, è dovuta all’amore per la città di Bolsena di papa Leone X, già ivi governatore perpetuo dal 27 agosto 1492 al 1513, anno in cui fu elevato al soglio pontificio.

L’esecuzione dei plastici maiolicati è circoscritta agli anni dal 1493 al 1497, quando viene eseguita una pala per la chiesa del vicino paese di San Lorenzo. La tavola, indubbiamente, fin dalla sua origine, ebbe un valore commemorativo del Miracolo. È però difficile poter definire il luogo al quale era destinata. Con molta probabilità doveva essere posta dove accadde il prodigio o sull’altare in quell’epoca venerato come quello del Miracolo, sicuramente non per l’attuale, date le sue dimensioni. La pala compositivamente è divisa in due parti ben distinte: nella superiore è la scena della crocifissione con le immagini della Maddalena, di Maria, Giovanni e due angeli che raccolgono in calici il sangue sgorgante dalle
mani del crocifisso; mentre nella parte inferiore, divisa da una leggera modanatura, è la scena del Miracolo.

Da notare l’unica figura maschile con copricapo rinascimentale, poggiata sul lato destro dell’altare e le cui mani si protendono timidamente sulla mensa. Per l’importanza che essa occupa nella composizione e per l’abbigliamento contemporaneo non si esclude si tratti dello stesso Benedetto
Buglioni o di un devoto committente. Interessante è anche il personaggio inginocchiato sui gradini dell’altare, che racchiude in parte con le braccia, e che con la mano destra aperta sembra indicare qualcosa che ha attirato la sua attenzione. Non si esclude un riferimento esplicito alle reliquie dei marmi venerate a Bolsena. L’altare è di foggia molto semplice; la mensa è ornata solamente degli arredi essenziali alla celebrazione; alla sinistra del sacerdote è il messale aperto con la scritta Magnificat anima mea Dominum, segue la data del 1496. Nella parte inferiore della pala è inserito un ciborio in marmo rosso, unico superstite dei quattro realizzati nel 1573-74 da Ippolito Scalza.

Miracolo di Bolsena – Francesco Trevisani

Questa venne donata dal cardinale Pietro Ottoboni, la più importante figura di collezionista nella Roma del primo Settecento, per interessamento di Andrea Adami. Il quadro non rappresenta il momento del Miracolo, ma, rispettando il culto delle reliquie locali, il sacerdote che frettolosamente si allontana dall’altare con in mano il calice e il corporale, e lascia cadere sul pavimento alcune gocce di sangue. Le reliquie sottostanti divengono così un unico con il pavimento dipinto nella tela. La semplicità e, in alcuni particolari, la rigidezza dei movimenti, fanno supporre un vincolo iconografico dei committenti e l’impossibilità da parte del pittore di dar sfogo alla sua vena creativa di grande esponente del Rococò romano. E si insinua prepotente il sospetto di una cosciente e programmatica interpretazione razionalistica voluta dallo stesso Ottoboni, e forse anche più in alto, suggerita dal pericolo che poteva rappresentare il Miracolo del 1693 che aveva coinvolto in una spirale di visioni incontrollabili anche personaggi in vista della Chiesa, come lo stesso card. Mellini (S. Alloisi). Tutta l’opera è pervasa da un
forte senso di teatralità, accentuato dall’inserimento architettonico al di là dell’arco trionfale, che diviene un vero e proprio proscenio al dramma rappresentato nella tela. Devozionalità e patetismo caratterizzano ancora l’opera, specialmente nella figura del sacerdote, il cui volto dall’espressione assorta è rigato dalle lacrime che scendono dagli occhi socchiusi. La luce investe diagonalmente la figura del celebrante accendendo gli ori della pianeta rossa e degli arredi liturgici, di cui è riccamente fornito l’altare. In questo, fra due colonne, è un grande crocifisso dal morbido modellato, non bronzeo né ligneo, ma “reale”, come reale è la presenza di Cristo nell’Eucaristia. Bellissimo e ben studiato il gruppo dei molti personaggi che
assistono all’evento; colpisce la ricerca fisionomica ed espressiva delle singole figure, tra le quali campeggia al centro della composizione un vecchio, che con le braccia alzate ringrazia Dio del dono del prodigio.

Il miracolo di Bolsena – Raffaello (stanze Vaticane)

Da una lettera datata 12 luglio 1511 sappiamo che Giulio II aveva commissionato a Raffaello la decorazione pittorica di questa stanza di cui il pontefice non vide il compimento. I temi della decorazione,
di spiccato carattere politico, attingono all’Antico Testamento, agli Atti degli Apostoli o ad eventi antichi e recenti della storia della Chiesa, riguardanti la protezione divina che la Chiesa riceve in momenti di estremo pericolo. La Messa di Bolsena e la Liberazione di san Pietro hanno come tema principale singoli personaggi della storia della Chiesa: la prima, un semplice e sconosciuto prete d’oltralpe; l’altra, il suo fondatore. Per entrambi, punto cruciale è la fede; e ancora, come nella cacciata di Eliodoro, la presenza di Giulio II allude alle due funzioni del papa – sacerdote e principe – che risalgono alla divisione del potere fra Mosè e il sacerdote Aronne. Inoltre si ha una contrapposizione fra un interno pieno di luce, con la presenza dell’ostia in cui si manifesta la natura umana e solare di Cristo, e la notturna prigione con la luna splendente fra le nubi. Contemporanee interpretazioni hanno voluto leggervi un’allegoria della Chiesa trionfante e della Chiesa sofferente.

Il giovane sacerdote, che solleva l’ostia sanguinante con quieta e sgomenta contemplazione e dispiega il corporale, si contrappone con la ferma e devota espressione del volto di Giulio II, inginocchiato con le mani in atto di preghiera poggiate sul faldistorio, di fronte a lui, dal quale lo separano le specchiature
lucenti del metallo degli arredi liturgici.

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